L'INFERNO DELLA CONGIURA

Carmelo L Romeo
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 9 dicembre 2014
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Il 29 luglio 2014 è stata inviata una comunicazione circolare con la quale ci eravamo promessi di riprendere le questioni, indicate nel nostro soft-happening THE CONSPIRACY, sulla cosiddetta “morte dell’arte” - sia pure questa soltanto una prediletta (e dunque, abusata) configurazione dell’arte modernista, una sindrome compulsiva cronicizzata, o la narrazione di un pettegolezzo tra “estetologi” e altri più concreti addetti ai lavori…. Al momento però non riusciamo a proporre qualcosa che vada più in là della sistemazione di una serie di note sparse  ai margini dei testi in questione - soprattutto a quello di Jean Clair, "L'Inverno della Cultura" (ed. Skira, settembre 2011). Ecco dunque delle pagine in cui vengono inoltre aperte (incautamente?)   diverse problematicità che avrebbero richiesto e meritato un trattamento meno improvvisato. Siamo tuttavia convinti della validità della visione d’insieme che il testo ha provato a costruire anche con argomenti e concetti messi in soffitta come cenci vecchi...
Tutte cose che si sapevano già? Siamo d’accordo. Aspettiamo anche noi di sentirne di nuove: teneteci informati. In attesa:
RIMPIANTI E VISIONI DI UNA NOTTE D'INVERNO
OÙ NOUS SOMMES EN HIVER
Sembra proprio che i filosofi, dopo aver cercato di spiegare il mondo e magari poi di metterci mano, hanno infine rinunciato anche a volerlo cambiare per decidersi infine a migliorarlo qua e là...
Il mondo ringrazia per tanta premura... ma la vecchia talpa continua a fare il suo lavoro anche nei terreni limacciosi dell'arte e dell'estetica....
[Clair pag.11] - Clair si richiama a Baudelaire che “Non parlava della cultura delle immagini, parlava di culto … il tentativo di presentire, nell’opera creata dalla mano dell’uomo, un infinito non circoscrivibile in un’immagine, alla stessa stregua dell’ortodosso che, attraverso l’icona e la sua venerazione, vuole rendere grazie alla divinità…. Baudelaire si trova nel bel mezzo di quel periodo … che vede instaurarsi in Germania il processo di Selbstvergötterung, l’autoidentificazione dell’uomo… Ma Baudelaire rimane un uomo di compassione, cui il Superuomo è estraneo, così come il Kulturell dei filosofi che si arrogano di un Geist, uno Spirito onnipotente." - E qui Clair cita Dostoevskij: “[Sono] Dio, mio malgrado”; e Artaud: “[…] ero io / a essere dio / veramente dio”.

Qualcuno aveva detto che tanto si ripone in Dio quanto si sottrae all’uomo. Allora, questo “arrogarsi” non potrebbe essere l’avvio, la premessa (magari ancora grossolana e primitiva, perché fatta in nome del Sé e dell’Io) per l’espropriazione di una millenaria (e persistente) espropriazione di quanto espropriato all’uomo da parte dei Poteri Celesti e celestiali? Ci si metterebbe però semplicemente al posto di Dio; ma così gli si mantiene un posto, invece di disfarsene senz’altro.

[Clair pag.11] - Dice anche (Baudelaire), a proposito dell’arte, che è piena di “ardenti singhiozzi” e che lui non concepisce “un tipo di Bellezza in cui non ci sia dell’Infelicità. Tutte cose che ci sono diventate quasi incomprensibili. Chiese, pale d’altare liturgie magnificenza delle funzioni religiose: i tempi antichi praticavano la cultura del culto. Musei “installazioni”, mostre, fiere dell’arte: oggi ci si dedica al culto della cultura. Dal culto ridotto alla cultura, dalle effigi sacre degli dei ai simulacri dell’arte profana, dalle opere d’arte ai rifiuti delle avanguardie, nello spazio di cinquant’anni siamo caduti nel “culturale”…
Dalla “cultura del culto” al “culto della cultura”, non mi sembra poi un passo da una qualche parte (avanti o dietro); piuttosto sembra un girare in tondo proprio come nelle spire di una molla da ricaricare di nuovo agendo sulla manovella prevista per riavviare la solita solfa di un eterno carillon. Il prossimo giro ci sta infatti riportando dritti dritti alla “cultura del culto” (auspicato, sembrerebbe, dall’autore), anzi di tutti i “culti” insieme (visto l’andazzo mondiale delle “religiosità” che rialzano baldanzose la testa), cui seguirà un’altra fase (prevista e prevedibile) di “culto della cultura”… e così via, nell’avvicendarsi di un girone infernale da cui l’uomo non può liberarsi?
In una “cultura del culto” l’uomo se la vedrebbe ancora con i fantasmi del suo stato primitivo, dove, per quanto poco fantasmatico e seducente, nel “culto della cultura” l’uomo se la vedrebbe almeno con cose più concrete su cui potrebbe agire praticamente per sbarazzarsene infine, una volta per tutte…
Una volta per tutte, come di un "rifiuto"?... E quando mai non vediamo dei preziosi reperti messi in bella mostra, provenienti proprio da antichi depositi di rifiuti di insediamenti preistorici o dalle discariche delle città più antiche?
Se è solo il tempo a pareggiare l’immondizia e l’arte, i rifiuti delle avanguardie semplicemente non perdono tempo e si avvantaggiano...
[Clair pag.12] - Oggi, con il passare degli anni, gli amministratori, gli ex allievi dell’École Nazionale d’Administration, i laureati dell’École Polytecnique e i direttori finanziari sono diventati i veri padroni dei musei, si scopre che stendere un PC (progetto culturale) equivale a sfruttare… i “depositi culturali” di cui si ha la salvaguardia nello stesso modo in cui si sfrutterebbero gli strati di carbone o le sacche di petrolio. Scopo della “comunicazione” sarà allora trovare nuove esche, nuovi mieli per attirare le bestie di passaggio.

Non è qui descritto il risultato finale della marcia irresistibile della mercificazione, arrivata oramai a sottomettersi, non più solo formalmente ma anche sostanzialmente, la produzione artistica al Mercato, al Capitale. O qualcuno immaginava che i facitori di cultura (creanti e salvaguardanti, come direbbe Heidegger) potessero mantenersi a lungo o per sempre fuori ed estranei al destino che ha subìto ogni altra cosa di questo mondo? - L’intero testo mi sembra pervaso dal rimpianto per l’allontanarsi del sacro dalla cultura  e dall’arte. Ma il sacro e la sua sottile teologia (cristiana o islamica), hanno dovuto correre ai ripari per consentire al profitto (del capitale usuraio, bancario e finanziario) di penetrare lo spirito del Diritto ed insediarsi nel fondo dell’anima dei singoli.
E dunque, se (al banco sperimentale dell’avvicendarsi dei modi di produzione) il “sacro” si è dovuto conformare all’economia materiale, è forse esso stesso una “economia politica” in una forma mitologica, prescientifica ossia primitiva, e risultare l’effusione odierna della più reazio-naria tra le ideologie: la religione?

[Clair pag.13] - Bobigny, nel profondo delle periferie che bruciano, possiede il suo quartiere Picasso, Le Raincy i suoi ritratti giganti di Rimbaud realizzati in ceramica sulle facciate, e l’ospedale psichiatrico Sainte-Anne, fra i suoi padiglioni di infelici, la sua rue Van Gogh e la sua avenue Paul-Eluard… La “cultura” come “toppa” per camuffare la miseria.

Ecco dunque un altro modo di presentarsi dell’esecrato “culto della cultura”; che, come spesso avviene, non ha nulla a che vedere con Picasso, Rimbaud, van Gogh o Paul-Eluard, piuttosto con la propaganda e  l’esercizio dell’ordine pubblico.
Il grande uomo, immenso poeta o pittore, è usato e messo lì anche a guardia dell’individualismo e del personalismo quali riflessi ideologici della concorrenza negli affari e nella  competizione sociale dei singoli (vedi l’attuale stomachevole parola d’ordine di “premiare il merito”).
Anche tutto questo eccepire sui modi attuali della cultura, fa parte, assieme a molti altri indaffaramenti dell’arte figurativa e della cultura, con l’impossibile programma di umanizzare il capitalismo.
E più che una semplice “toppa” per camuffare la miseria, è un modo per mantenere la miseria al suo posto; per farla sentire “culturalmente” anche impreparata e… scoraggiarla alla presa della Bastiglia.
Invece, per lottare non c’è alcun bisogno di sapere: basta rivoltarsi contro le attuali condizioni di vita: si capirà dopo..

[Clair pag.13] - Probabilmente, è questo che Kierkegaard definisce lo “stadio estetico”. A suo parere, nello sviluppo di un individio l’estetica non è il grado più levato della vita spirituale, ma il suo balbettio, il suo chiacchiericcio spontaneo, rudimentale, uno stadio caratterizzato dall’oscenità di un ego onnipotente, che eleva a scopo della vita il puro godimento dei sensi, senza preoccuparsi del bene e del male, coltivando piuttosto l’indifferenza, l’edonismo lo slancio cupido o concupiscente, condannato a cadere sempre per poi sempre rinascere. Ecco a che punto siamo arrivati dopo tre secoli di Lumi, ed è questa la situazione riassunta dalla dottrina delle avanguardie secondo Duchamp nella formula della “bellezza dell’indifferenza”.

Arditi passaggi. Dalla “cultura” (ritengo della società) si passa allo stadio dello sviluppo (ritengo mentale) di “un individuo” singolo, per poi trasferire quello sviluppo nuovamente alla generale situazione sociale e cuturale; come se la società fosse una mera somma aritmetica degli individui che la compongono. C’è da chiedersi se non siano anche queste disinvolte rappresentazioni, passate con indifferenza discor-siva, a nutrire proprio quell’ego onnipotente che poi si deplora.
Ora vorrei fare un esperimento.
Immaginiamo qualche abitante di quelle periferie che bruciano, e ditegli:
Il tuo balbettio, il tuo chiacchiericcio spontaneo, rudimentale ti pone in uno stadio caratterizzato dall’oscenità di un ego onnipotente, che eleva a scopo della vita il puro godimento dei suoi sensi, senza preoccuparsi del bene e del male, coltivando piuttosto l’indifferenza, l’edonismo lo slancio cupido o concupiscente”.
Credo che risponderebbe interdetto:
Guarda che ti sei rivolto alla persona sbagliata. Magari balbetto, parlo a vanvera e male. Ma purtroppo il mio ego onnipotente non è capace di soddisfare granchè il puro godimento dei miei sensi. Sì, lo confesso, non mi affliggo sul bene e sul male, però al mio posto se ne preoccupa la gendarmeria del quartiere, che non favorisce affatto i miei slanci cupidi o concupescenti.” 
Magari ti accorgerai allora che in quei termini potevi rivolgerti solo ad un “artista”, o a te stesso.
E stigmatizzare l’indifferenza non arriva però mai a criticare anche un’idea di  cultura intesa sempre e soltanto come “cultura in assoluto”, indifferenziata, appunto.
Non esisterebbe ad esempio, una specifica “cultura proletaria” separatamente dall'union sacrèe di una “cultura" pigliatutto, a cui oramai sola continuamente ci si richiama senza neppure più accorgersene.
In queste delicate faccende da barricata, sembra che l’indifferenza sia d’obbligo per un intellettuale in generale (ossia: generico?) che non vuol rischiare l’incarico pubblico.
Chi si sottomette dunque per primo al deprecato culto della cultura e alla bellezza dell’indiferenza?... 

[Clair pag.14] - Non si può comprendere il successo riscosso da Marcel Duchamp all’Armory Show nel 1913 e alla Society of Indipendent Artist nel 1917 – capire come quell’opera provocatoria e derisoria immaginata da un dandy cinico avesse potuto destare tanto interesse in una società ancora austera e intrisa di rigorosi principi morali – se non si tiene conto del fatto che essa offriva, per la prima volta, un’arte slegata da ogni riferimento al passato. Un’arte lavata da ogni passione, sciacquata da ogni sentimento, spogliata di qualsiasi rinvio a una Storia di cui l’America non sapeva che farsi e della quale non voleva più sentire parlare. Il Nudo e la sua scala, l’oggetto sanitario, gli accessori idraulici che Duchamp esponeva, tutto ciò era in fondo la Riforma, un’iconoclastia stile XX secolo, efficace, pratica, senza cupezza né macerazione, anzi, con il fulgore delle avanguardie…

L’industria moderna e il capitale, spargendo ai quattro venti gli esclusivi segreti delle vecchie corporazioni, ha provveduto col tempo al disfacimento e dissolvimento  delle forme legate a schemi e autorità del passato. Dopo di che tutti ed ognuno sono stati fatti liberi di intraprendere un qualunque affare e con qualsivoglia mezzo pur di riuscire… E il Nuovo Mondo era l’ambiente più asettico per svolgere in forme estremamente conseguenti tutte le possibilità offerte dall’affermarsi e stabilizzarsi del nuovo modo di produzione anche dell'arte dell’arte figurativa. E’ così che un pisciatoio di porcellana è riuscito a diventare un’opera d’arte... E a Clair non rimane che scuotere, rassegnato, il capo…

Da parte sua l’arte forse ha fatto e continua a fare sempre la stessa cosa: esprimere un mondo ad un determinando momento del suo sviluppo, sia quando è intriso di trascendenze, di sacre cupezze e passioni maceranti, sia quando poi queste divinità, cupezze e macerazioni sono sparite all’orizzonte. E la fortuna di Duchamp si può forse spiegare proprio con il fatto che in quella società “ancora austera e intrisa di principi morali”, questi stessi principi erano, appunto, al momento in fuga, incalzati da altri che ne avrebbero preso il posto.
D’altronde, se la società contemporanea di Duchamp era ancora austera e intrisa di principi morali  non ne erano per niente più intrise da tempo l’economia e i reali rapporti sociali di quella società…
C’è forse bisogno di riproporre la vecchia domanda:
E’ possibile la concezione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca, e perciò dell'arte greca, con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e il telegrafo?”

E’ una prerogativa dei sentimenti quella di sopravvivere, a volte molto e troppo a lungo, nelle coscienze dei singoli anche dopo la definitiva sparizione del mondo che quei sentimenti aveva suscitato e alimentato…
Certo, si può anche vivere nel rimpianto; ma è una faccenda personale che ha poco o nulla a che fare con l’arte o l’estetica (che farebbero bene a mettersi nelle condizioni migliori per individuare le eventuali nuove forme nelle quali continua a manifestarsi la specificità dell’arte)...

Ma penso di non poter continuare in questo modo; cercando di sistemare in una forma più o meno accettabile e discorsiva delle improvvisate annotazioni al testo in questione. Allora preferisco darci un taglio e dire che alla fine ho avuto la sensazione di aver letto una anamnesi dell’arte contemporanea (moderna, modernista e postmoderna, come la si voglia specificare). Ci si ferma alla raccolta di dati e informazioni sul malessere, per di più partecipando al dolore del malato che, smarrito il “sacro” ha perduto anche ogni speranza di salvezza ed è ormai incapace di distinguere tutte le falsificazioni che mette in opera questo mondo invernale (e infernale) per confonderlo e in cui si sente lui stesso abbandonato, e forse anche tradito...

Come spesso succede si parte da dati bell’e fatti, trascurando di chiedersi, ad esempio, come sia stato possibile che l’arte sia arrivata ad essere ciò che è – ovviamente lasciando da parte l’idea puerile che quest’inverno sia piombato sull’arte per la spinta, malvagia o semplicemente volgare, di qualche dandy geniale o in seguito ad un orchestrato complotto, per quanto esteso e subdolo possa immaginarsi…

Ritengo che le perdite lamentate in quest’inverno della cultura siano simili a quelle che ha subìto l’intero mondo feudale quando si è presentato il mondo regolato dai nuovi rapporti sociali del moderno capitalismo nascente; perdite che si sono andate facendo sempre più inarrestabili quanto più questi rapporti sono andati estendendosi e sviluppandosi fino a liquidare ogni legame reale col vecchio mondo, lasciando magari al loro posto soltanto dei rimpianti.
Le passioni, i sentimenti (del sacro, ecc.,) sono fatti della stessa materia dei corpi in cui risiedono; anche loro nascono, crescono, muoiono e vanno infine in putrefazione, lasciando solo una scia di illusioni…
O forse abbiamo solo
a che fare con uno di quei tanti burloni che vogliono salvare l'arte dal Capitale e il Capitale da sé stesso? che pensano di prendersene i benefici senza gli inconvenienti?...
Lo vediamo difatti corrucciato al cospetto di musei e collezioni trasformati in mercati o depositi bancari, indignato da manovre e strategie per creare proditoriamente valori di mercato, offeso dall’arte stessa che non ha più nulla a che fare con il sacro e la reliquia da venerare…
Sembra proprio che i mercanti, nel Tempio ieri come nel Museo oggi, siano sempre rimasti nel "giusto" posto a loro assegnato dalla forza delle cose sociali… Eppure i poverini trovano ogni volta chi non capisce questa semplice verità e continua a volerli scacciare… ma solo a parole…

[Clair pag.78] - Altri fatti sembrano indicare invece che, una volta caduto il tabù dell’inalienabilità delle collezioni pubbliche, tutto o una parte del patrimonio di una nazione avrebbe potuto essere utilizzato per fini commerciali. Di conseguenza, parve scontata l’idea che una collezione pubblica non è più il patrimonio spirituale che testimonia della storia di un paese, cosicché la sua memoria visibile sarebbe altrettanto preziosa per le nostre democrazie laiche di quanto lo furono gli oggetti della fede per i credenti delle società religiose, ma un insieme di merci pure e semplici, suscettibili di essere scambiate, affittate e, un giorno forse vendute.
Cos’altro è qui descritto se non la sottomissione dell’arte alle esigenze del mercato e del Capitale?
D’altronde se l’enigma dell’arte contemporanea, da Duchamp in poi, non consiste in altro che nell’elaborazione dell’opera d’arte con l’indifferenza stessa della merce, non c’è da meravigliarsi se dopo un secolo si doveva arrivare a tanto. Può difatti una merce trattenersi dal cercare al mercato l’ultima sua propria rifinitura della messa in vendita?

Dopo averci mostrato una certa mappa dell’isola misteriosa con tutti i suoi sacri luoghi perduti, da che parte sarebbe il tesoro dei rimedi?
Per mettere al riparo le collezioni pubbliche dallo smembramento e vendite al dettaglio, Clair sembra affidarsi a provvidenziali decreti amministrativi. La sua fiducia somiglia troppo ad un impotente agitarsi davanti un quadro abbastanza definitivo del disfacimento.

E dire che appena questo mondo si era sufficientemente sviluppato venne subito messa a punto anche la terapia efficace e definitiva… Solo che per applicarla oggi occorrono quelle determinate condizioni materiali al contorno (teoriche e pratiche, storiche e sociali) che sole possono consentire di metterla in atto.
Mai più senza programma” - giurò a sé stesso quell’intrepido tornando a casa dopo Teano…
A tanto è valso decidersi a spaventare i pupi, semplicemente mantenendo spettrale lo spettro che, invece, continua ad aggirarsi in seno alla società con un corpo del tutto concreto...

[... stiamo veramente parlando di Arte, o parlando di questa pensiamo invece a tutt'altro? Se proprio questo sta accadendo stabiliamolo alla fine... ] 
Il passaggio dell’opera d’arte dalla perdita dell’aura (sacra o reliquiaria) alla merce senz’altro è stato già tratteggiato in questi termini:
Il modo di produzione capitalistico “fa della merce la forma generale di ogni prodotto”.[1]  
Con ciò l’opera d’arte parrebbe definitivamente scacciata dagli spazi siderali – nei quali continuano invece a porla gli ideologi – e rigettata sulla dura terra. 
Ma, come tante altre cose, vi ricade a testa in giù; e in questa sua stravagante posizione continua a raccogliere le ultime briciole metafisiche. 
L’opera d’arte viene spogliata, nella sua epoca borghese e capitalistica, di tutti i vecchi paludamenti auratici per rivestire i panni, a tutta prima triviali, ovvii,della merce. Il suo ingresso nel mondo delle merci gli dissolve i fumi mistici delle epoche passate. Salvo a produrne di nuovi.
L’opera d’arte trovando forma di merce trova anche approntati in questa forma i panni del feticcio; essendo la merce una cosa non proprio ovvia - anzi “dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologali.” [2]
Così l’opera d’arte continua a circonfondersi di un’aura d’arcano essendo un arcano in quanto merce – che essa possa non giungere allo scambio è un fatto casuale; il suo riconoscersi nel ritrovarsi merce al momento dello scambio costituisce il suo più intimo cruccio teleologico, e al contempo la sua vergogna. Da parte sua l’artista vede gli altri produttori e le altre merci come cose triviali e laide, e va fremendo di sdegno ad ogni loro contatto. Si immagina un Narciso – per il quale nuova fortuna si inaugurò – ma è un Dorian Gray incodardito d’aprire la porta dietro la quale sa riposta la sua vera anima attuale. [3]

Ma – parafrasando Marx – la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e la pittura moderna sono legate a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che continua a suscitare in noi un godimento estetico…[4]
Si potrebbe tentare di rispondere allo stesso modo di Marx, ossia che essa "suscita un fascino come stadio che più non ritorna" [5]. Tanto varrebbe a sistemarla nei tanti discorsi sulla "morte dell’arte" [6] che ci inseguono da Hegel ad oggi, senza però rispondere, o tentare di rispondere, di cosa si pasce (nella morte) la sua immaginazione e il nostro godimento. 

L’arte modernista, dopo aver inizialmente attinto dalla fantasmagoria della merce e del mercato, nella sua attuale fase stramatura continua a raschiare il barile per tirar sù la propria fascinazione dal Credito e dalla Borsa, dove non ci sono più gli oggetti con le loro storie ma solo Cartelle (vuote) con i loro titoli. E qui, dove agiscono forze su cui non si ha alcun dominio effettivo, ogni mitologia può riprender fiato per mettersi in vetrina e riprovarci a rilanciare le trascorse beltà delle sue prime giovinezze.
Il fondamento sociale dell’arte moderna e postmoderna, cioè il modo e i rapporti di produzione, è sempre lo stesso; ma il passaggio dalla merce al titolo, dal mercato alla Borsa, è anche passaggio dalla raffigurazione analogica a quella digitale. La merce come oggetto, la sua  materia assieme all’estetica che si porta appiccicata addosso, svapora sotto i nostri occhi. Rimane la cedola azionaria e lo “spettacolo” di un tale svanire – che è pur sempre un modo come un altro per provare a campare.
Sarà pure un passaggio troppo meccanico, tuttavia dovevamo tentarlo per osservare, con i nostri occhi e da una certa lontananza, l'intero paesaggio invernale che c'è stato mostrato.
Perché per questa via il complotto dell’arte di Baudrillard si svela come un ordinario consiglio di amministrazione, l’inverno di Clair come una notte di mezza estate in cui Consiglieri Delegati scommettono sui futuri proventi.
E, quando Zygmunt Bauman ripete che “il senso dell’arte postmoderna sta nello spalancare davanti all’arte la porta del senso” sembra proprio che quest'arte si sia guadagnata il senso degli affari, per svolgere i quali, è risaputo, non si è necessariamente obbligati a rispettare schemi e autorità del passato; cosicché, “non essendo questa una caratteristica dei nostri tempi, agli artisti non rimane che una possibilità: la sperimentazione”. [7].
Una "sperimentazione" nella quale dunque ogni  mezzo è buono, come insegna la concorrenza commerciale; e su questo terreno non è poi detto che una particolare sperimentazione (non essendo più quella degli specifici linguaggi ma unicamente quella del loro specifico mercato) ottenga sempre l’esito sperato, ossia il successo (di mercato). 
E qui, al mercato, “l’essere parmenideo … deve ora subire il dominio di ciò che potrebbe essere, ma che non è affatto detto che avvenga”.[8]. Difatti, come tutti sanno, uno ci “prova e riprova”[9] a portare i suoi prodotti al mercato, non essendo mai sicuro che in questo luogo avvenga lo scambio sperato [10].
Ecco da dove l’arte e l’estetica moderniste hanno iniziato ad attingere lo spirito che pervade tanto la produzione artistica quanto il suo consumo:  l’azzardo e il caso, fino a raggiungere, dopo tanto bazzicarli, lo stato attuale in cui non provano più alcuna vergogna a provarci continuamente.
Al mercato difatti uno può portarci quello che vuole o quello che ha. Che lo metta in mostra lungo un viale delle Tuileries accanto a una scultura di Maillol o davanti ad un dipinto di Gerricault nei saloni del Louvre, può essere un problema di ordine pubblico o di etica, sollevare questioni di estetica o di semiologia; allora, per non fare del chiasso inutilmente occorre sempre chiarire prima in nome di cosa si vuole parlare (e non lo dico certo per discriminare il chiasso stesso dell’arte e della cultura, che ha sempre saputo giovarsene, tanto nel frastuono di un mercato quanto nello sfarzo delle corti).

“L’arte postmoderna tende a diventare un equivalente  intellettuale del liquido che si versa nel radiatore dell’automobile per impedirne il congelamento: il senso dell’arte postmoderna consiste nell’impedire che le odierne tendenze si rapprendano in gelidi canoni che blocchino l’afflusso di nuove possibilità”.[11]

Ma l’arte come liquido antigelo non servirebbe a nulla se poi il motore non viene avviato per farci portare dall’automobile nel posto in cui vogliamo andare - e sia pure per andare a puttane [12].
Che in arte tutto sia diventato possibile è quasi completamente un bene; ma può esserlo totalmente solo se si comprende anche ciò che, in arte, è "necessario".  

“La storia dell’arte americana, da Duchamp al minimalismo – Donald Judd, Robert Morris, Kenneth Noland, David Smith… - evoca un’arte che ripete instancabilmente che non c’è niente da leggere nelle forme e nei colori della modernità, né una memoria, né un ricordo, né un simbolo, che non c’è alcun senso da scoprire o emozione da provare, solo forme e colori, nient’altro che forme e colori, che non esprimono altro che se stessi: ”A rose is a rose is a rose…”, un blu è un blu è un blu, un cubo è un cubo è un cubo…” [13]

E qui mi domando: l’opera d’arte figurativa è forse un mero segno di rimando per una nota fuori pagina?... La Scuola di Atene di Raffaello , la copertina di un Dizionario di Filosofia, come il Galileo quarantenne del Robusti un ritratto segnaletico per la polizia vaticana?...
Come non capire che proprio i tanti “null’altro  che un paio di grossi scarponi” (van Gogh), “null’altro che un pisciatoio” (Duchamp), “null’altro che una tela di un unico colore” (Barnett Newman), estendendo le possibilità delle apparizioni dell'arte e del suo godimento fuori dagli ambiti tradizionali, hanno favorito anche l'estendersi della comprensione e del godimento dell’arte del passato?...
mentre per quella del presente (pur avendo pietà per le afflizioni dei professionisti dell'arte e dei Musei) basterebbe solo guardarsi attorno con un guizzo di contegno "estetico"?...
Ma ecco che, appunto l’estetizzazione diffusa nella realtà quotidiana ha portato a chiedersi perché qualcosa è considerata "arte" mentre qualcos'altro esattamente uguale non possa esserlo.
Questo problema si è posto naturalmente solo dopo che l’arte figurativa già si esprimeva in modi tali che “una comune scatola di legno, una bobina di corda per bucato, un rotolo di fili per legare il pollo, una fila di mattoni possono essere una scultura. Una semplice sagoma bianca potrebbe essere un dipinto[14].
Ma per quale buona ragione - potremmo chiederci - una scatola, una bobina, un rotolo di fili non potrebbero essere altro che sé stessi? Perché impedire ad una semplice losanga bianca di non essere altro che una semplice losanga bianca? E così, applicando ad ogni cosa il principio dell’arte minimalista, ”a rose is a rose is a rose”, assumere l’intera realtà immediata che ci circonda come “arte” senz’altro?
Invece occorreva correre ai ripari per concludere infine che lo scopo dell’arte consiste nel creare delle opere unicamente allo scopo di "distinguere" filosoficamente la realtà dall’arte, quando queste appaiono tra loro identiche.
E a beneficio di cosa, di chi, si dovrebbe distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è?  Non certo a beneficio dell’uomo comune, che si vedrebbe espropriato di una risorsa emotiva, ampiamente disponibile nella realtà che lo circonda, e dalla quale attingere liberamente per un eventuale godimento estetico.
Personalmente non sopporto quei tipi che anticipano la battuta finale di una barzelletta dicendo ai narratori delusi che era vecchia e risaputa; come non sopporto chi vanifica il piacere di qualcuno di fare una cosa qualsiasi pensando di fare dell'arte. Allora... per la cèrnita tra le infinite cose del mondo in cui oramai si trova l'Arte, a chi necessita un criterio (filosofico) per distinguere tra ciò che è arte e ciò che non lo è, se non all’uomo estetico, collezionista o soltanto snob ? Chi altri se non il mercante d’arte ha bisogno di una distinzione di valore "filosofico" da trasformare, sic et simpliciter, in distinzione di valore "economico"? 

“L’arte che mette in atto la propria sparizione e quella del suo oggetto era ancora operazione di una certa grandezza. Ma l’arte che si limita a riciclarsi indefinitivamente facendo man bassa della realtà? Ora, la maggior parte dell’arte contemporanea si dedica proprio a questo: ad appropriarsi della banalità, degli scarti, della mediocrità eleggendoli a valore e a ideologia” [15]

E qui mi viene da riformulare:  Mettendo in atto la propria sparizione e quella del suo oggetto, "l’arte svolgeva una operazione di una certa grandezza"… appunto perché la propria sparizione metteva in atto l’apparizione (artistica) dell’intero mondo circostante, di cui appropriarsi (filosoficamente) e godere (esteticamente) anche di ogni sua banalità, scarto, mediocrità…
Ma ecco che quest’arte finalmente sfuggita di mano all’arte, subisce l’assalto di quanti vogliono salvarla da se stessa per riportarla alle condizioni di partenza, nuovamente relegandola in un gruppo ristretto di oggetti (sia pure filosofici) da tenere profittevolmente in pugno.
Sembra di assistere alla farsa di una guerra di colossi industriali dell’energia contro il Sole e le energie rinnovabili…
L'occhio e la sua arte, che erano arrivati a risolvere e dissolvere anche praticamente l’ansioso (e compulsivo) problema della loro insostenibile separatezza dalla realtà immediata e dalla vita dell’uomo sociale, si ritrovano infine quali morti possessi tra le braccia del mercato che li vuole “produttivi” nonostante sé stessi.

Nelle descrizioni di Clair sembra proprio che l’attuale problema dell’arte e della sua morte in inverno sia andato svelandosi essenzialmente come problema della merce còlta nella sua inarrestabile marcia.
Qui devo annotare che ogni tipo di riflessione svolta finora sulla "morte dell’arte" va pure bene ai fini di uno sviluppo della filosofia o del discorrere estetologico; ma anche se diversi di tali discorsi hanno in comune l’idea di "merce", per risultare qualcosa di più di esercitazioni accademiche che si avvantaggiano di analisi svolte per tutt'altre finalità che la "filosofia", non andrebbe dimenticato che la specificità della merce intesa nel senso marxiano trae la sua propria sostanza critica efficace da un programma sociale e politico decisamente delineato nella teoria come nell’azione conseguentemente rivoluzio-naria; mentre una idea di merce denaturata dalle sue implicazioni pratiche sul terreno sociale e politico, rimane un vezzo e un appeal, un termine inerte neppure buono a farci fare un passo fuori dalle banalità, dagli scarti e dalla mediocrità eletti a valore e ideologia, ecc...

Tuttavia (fatti salvi quegli artisti che in un qualche modo sono riusciti ad afferrare e trattare in tempo [16] quegli elementi specifici del linguaggio dell’arte figurativa che permangono al di là delle incessanti sperimentazioni [17]) il lato più interessante della fase corrente dell’arte figurativa consiste forse nel fatto  che le così dette sperimentazioni, non svolgendosi più nell’ambito dei linguaggi specifici ma direttamente nell'ambito del mercato (dell’arte), hanno fatto di quest’ultimo un ambito linguistico; cosicché il successo (dell’esperimento)[18] assieme al  valore di mercato decide anche il valore linguistico - con tutto quello che ne consegue per orientare, modificare o innovare i linguaggi artistici.
Ecco dunque come il capitalismo stesso, realizzando tale sottomis-sione/assimilazione del linguaggio artistico alla sua sfera economico-sociale, renderebbe possibile con un’unica azione liberarsi pratica-mente dalla prima per avviare l’emancipazione dell’altro.[19]
Tale emancipazione è forse una richiesta estranea all’arte?
Non lo credo; ritengo piuttosto che sia già stata storicamente avanzata come una sua intima necessità:  

Le istanze formalistiche, anche quelle poste dalle avanguardie storiche, sono state tutte avanzate prematuramente. Prima della premessa storica che sola poteva indirizzarle a soluzione e compimento chiudendo il ciclo delle antinomie. Finché esiste la società di classi, l'arte è condannata alla politica, la forma all'ideologia, il significante al significato.[20]

L’arte moderna in fondo non ha fatto altro che continuare a reclamare chiarimenti  critici (sociali e linguistici), fin dai pittori di Barbizon al cubismo, dal suprematismo al surrealismo, dal minimalismo al concettuale…
Questo l’arte poteva fare, questo doveva fare, e questo ha fatto.
Quante altre volte e in quali altri modi l’arte figurativa dovrà ancora ripetere che ha solo bisogno di un chiarimento critico, a cui però può pervenire dopo e solo dopo che ci sia stato un "chiarimento" sociale e politico?... 

Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura sull’immaginazione e mediante l'immaginazione: essa scompare quindi allorché si giunge al dominio effettivo su quelle forze”.[21] 

Dall’alchimia alla chimica delle molecole, alla fisica dell’atomo, alla comunicazione analogica e digitale, al sistema binario, al bit e memoria, ai frattali, agli alberi, alla Rete e ai nodi... sotto le spinte del Capitale stesso la molteplicità del mondo fisico delle apparenze si è andata riducendo al punto che oggi sentiamo di poterlo stringere sempre più in pugno, non fosse appunto che per le contraddizioni sociali. 

Nell’attuale moderna produzione vulcanica di merci e servizi, anche la particolare produzione artistica, favorita dalla distribuzione e diffusione in tempo reale dei beni prodotti, ha ricevuto un tale incremento esponenziale delle stesse possibilità estetiche storicamente e socialmente disponibili che sembra aver raggiunto ormai una soglia nella quale il singolo artista, surclassato e sepolto sotto l’immane produzione d’ogni genere di cosa, svanirebbe del tutto, non fosse per il persistere della divisione del lavoro e del valore di scambio, che tuttora lo costringe a risolvere sé stesso e i prodotti del proprio lavoro nella forma dominante della merce. [22]
L’arte moderna, presa nella globalità indiscriminata e impertinente delle forme e dei modi con cui preferisce mostrarsi e imbrattarci, non agisce più da tempo nella mitologia e nel sacro; sembra invece  infiggersi in un inconscio enormemente potenziato [23] per avviare processi connettivi inaspettati.
E balena reale la possibilità (per non dire: la necessità) di una società che potrebbe possedere sé stessa senza essere posseduta dalla proprietà privata e dalle autorità al seguito...
Come non vedere nella Rete la forma stessa dei legami neurologici di un cervello globale in attesa di un corpo vivo, finalmente liberato dall’abbraccio mortale del Capitale?...
[...Certo!.. è sempre necessario fare dei saggi nella realtà attuale per riscontrarvi già operanti quelle forme che prefigurano la società futura; ma, se non vogliamo fare nella teoria, gli stessi errori di valutazione che l’impazienza provoca nella pratica bisogna però non volerle trovare ad ogni costo.]
...Tuttavia, mentre una generazione degli sguardi già attinge dal web il suo peculiare godimento estetico, la precedente sembra a volte preferire tornare sui suoi passi scrollando, rassegnata, la testa...

Dunque... a che punto siamo?
Siamo al vertice.
Come al vertice della propria evoluzione è ogni cosa esistente, anche l’occhio si trova al vertice delle transizioni… ossia penzola nel vuoto, pronto al balzo improvviso.
E’ forse per questa via che l’arte uscirà dal suo attuale stato di morte? [24]
Non lo sappiamo affatto.
Ma, ripeto: non c’è alcun bisogno di saperlo, basta rivoltarsi contro le attuali condizioni generali di vita… si vedrà dopo.
... Ben scavato, vecchia talpa!

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[1] - K. Marx – Capitolo VI inedito (Il Capitale: Libro I) ed. La Nuova Italia, Firenze 1972, pag. 105.
[2] - K. Marx – Il capitale, Libro I, capitolo I, Editori Riuniti a, Roma 1970, pag. 84.
[3] - Carmelo Romeo, Abaco delle Esortazioni (critiche), Aut.Trib. 17139 n. 1,  maggio  1978).
[4] - da K. Marx: “Con la pressa del tipografo non scompaiono necessariamente il canto, le saghe, la Musa, e quindi le condizioni necessarie della poesia epica? Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili.” (Karl Marx, dal Quaderno M dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, (Grundrisse der Kritik politischen Okonomie,1857-1858), in Lineamenti…, cit., p. 39-40.
[5] - Essendo sparite le generali condizioni sociali necessarie per il sorgere e svilupparsi, ad es., dell’arte Rinascimentale, Barocca, Neoclassica o Moderna – fino al cubismo e a Duchamp, mettiamo.
[6] - Sia pure - ripetiamo - la "morte dell’arte" null’altro che una prediletta configurazione dell’arte modernista, una sindrome compulsiva cronicizzata, o la narrazione di un pettegolezzo tra "estetologi" e altri addetti ai lavori.
[7] - Zygmunt Bauman, “Qualche riflessione sul significato dell’arte”, in Il Disagio della Postmodernità (2000), ed. Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 120.
[8] - Roman Kubicki, in Z. Bauman, Il Disagio…, op. cit., pag. 124.
[9] - “Provando e riprovando” era il motto L'Accademia del Cimento, la prima associazione scientifica a utilizzare il metodo sperimentale di Galileo in Europa.
[10] - Ah, la speranza, la fiducia, il colpo di fortuna o ...l’insider trading! Non sono forse proprio queste le categorie del tutto aleatorie dominanti la Borsa, il Credito e il Debito pubblico e privato mondiale? ... Generatrici di un « bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio».
[11] - Bauman, cit. p. 118.
[12] - A Roma, nei primi anni sessanta, lo scultore Franco Libertucci era riuscito a vendere qualche disegno. Con qui soldi acquistò subito una Fiat Cinquecento usata. Dopo poco, dal vinaio Buccone di via di Ripetta, incontrò il pittore Giulio Turcato e gli offrì da bere: “Ho venduto alcuni disegni e mi sono comprata una Fiat 500 usata”; “Allora possiamo andare a puttane!”, esclamò immediatamente Turcato, tutto felice... 
[13] - Clair, op. cit. pag. 14-15.
[14] - Arthur Danto, L’Abuso della Bellezza (2003), Postmedia, Milano 2008, pag. 43.
[15] - Jean Baudrillard, Il Complotto dell'Arte (1996), ed. SE, Milano 2013, pag. 39.
[16] - Con il rigore della lucidità (non tanto della consapevolezza, che spetterebbe alla critica) indotta da favorevoli circostanze storiche.
[17] - Sperimentazioni che oramai svolge chiunque e in ogni dove, per mostrarsi e raggiungerci all’istante fin dentro le nostre case. - E' deprimente imbattersi ancora in pagine web di pittori costituite esclusivamente da lunghe liste dei luoghi nei quali si sono piantati chiodi sui muri per appendervi quadrucci (o si tratta solo di conformarsi alle disposizioni sulla tracciabilità delle proprie merci?).
[18] - …o il suo contrario...
[19] - Per quanto prediletta, rimane però una povera illusione immaginare di invertire i termini nella supposizione di agire sul linguaggio per rivoluzionare l’assetto sociale.
[20] - C.R. in Il Quotidiano di Bari , 25 dicembre 1979.
[21] - K. Marx, Lineamenti..., cit. p. 40.
[22] - Da "Ce l'ho qui la brioche", in No.Made n.5, 2011.
[23] - ...oggi ancora per titillarlo (l'inconscio), domani magari per snidarlo definitivamente.
[24] - ...nel quale tuttavia continua a tenere in vita un discreto business.
NB- - Non chiediamo scusa per le cosiddette "autocitazioni" perché manifestano soprattutto della continuità negli anni di un pensiero che caratterizza il nostro lavoro di sempre.